Pensieri circolari

se i pensieri vanno dritti spesso sbagliano mira

22/03/08

Rischio terroristico e altri rischi

Per aumentare, almeno teoricamente, la sicurezza delle popolazioni occidentali, vengono adottate misure restrittive, anche drastiche, che incidono sui diritti civili. Facendo un piccolo calcolo statistico, dato che la probabilita’ di morire per un attentato e’ dalle 100 alle 1000 volte minore che di morire per un incidente stradale, le misure restrittive relative dovrebbero avere una incidenza analogamente piu’ drastica. In altre parole se ragionassero per gli incidenti stradali come per il terrorismo, i governanti dovrebbero impedire i viaggi su mezzi personali e limitare gli spostamenti sui mezzi pubblici a non piu’ di uno al mese.
Questo è il concetto di fobia: considerare una cosa molto più pericolosa delle altre oggettivamente più pericolose.

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20/03/08

La diarchia: un uomo e una donna

Forse puo' interessare sapere che in Italia c'e' un'associazione nelle cui regole esiste gia' il concetto di "50 e 50" tra uomini e donne. Negli scout dell'Agesci e' prevista dal 1974 la diarchia, cioe' che tutte le cariche associative devono essere coperte in coppia da un uome e una donna. Anche nel Consiglio generale i rappresentanti delle regioni devono essere eletti riservando una percentuale del 30% non alle donne ma al sesso minoritario, prevedendo anche la possibilita' che sia minoritario quello maschile. Bisogna riconoscere che nonostante cio' non e' cosi' raro che rimanga scoperto il ruolo femminile (anche se a volte rimane scoperto anche quello maschile) ma in generale entrambi i ruoli sono regolarmente ricoperti. Se tutte le associazioni di volontariato, le onlus, le ong, i partiti e tutte quelle strutture sociale che propongono l'equivalenza tra uomini e donne cominciassero ad adottare simili criteri, forse le cose comincerebbero a migliorare e sarebbe piu' facile e credibile proporlo anche in contesti piu' generali come i parlamenti e le elezioni.

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Riflessioni sulla privacy

Spesso si sente parlare di "diritto" alla privacy, tanto che come garanti nell'Autorità sulla Privacy hanno messo dei paladini dei diritti.
Non ho mai creduto che la privacy fosse un diritto. Non ho mai ritenuto il segreto qualcosa di positivo e ho sempre diffidato di chi aveva dei segreti da tenere. Non penso che sia un diritto nascondere le informazioni ma è un diritto che non si abusi delle informazioni che si hanno a disposizione.
Se sono omosessuale, cattolico, ateo, mussulmano, comunista o leghista devo avere il diritto di esserlo senza subire conseguenza negative, e non devo essere costretto a esplicitarlo, potendo scegliere di divulgare o meno l'informazione, ma da qui ad affermare il diritto alla privacy per cui se qualcuno viene a sapere che sono omosessuale, cattolico, ateo, mussulmano, comunista o fascista o qualsiasi altra cosa derivante da una mia scelta deve fare finta di non saperlo ce ne corre.
Dire che il segreto è un diritto è l'accettazione della sconfitta di una società che non riesce a aiutare chi è in condizione di debolezza e spera di ridurre i danni nascondendone la causa ma rischiando di crearne altri.
Il fatto è che il cosiddetto "diritto alla privacy" è diventato di moda ultimamente grazie ad un'abile gioco di parole che ha fatto diventare prezioso ciò che fino a non molto tempo prima non lo era. Nel '68 si arrivava ad affermare che "il privato è pubblico" ma una saggia regia ha instillato l'individualismo in ognuno di noi a tal punto da farci credere un diritto la secretazione perfino del pubblico.
Ai tempi in cui anche fare una fotocopia era questione non semplice e raccogliere e diffondere informazioni era cosa concessa solo a pochi potenti nessuno parlava d privacy. Quando poi, anche grazie alle tecnologie, la raccolta e diffusione delle informazioni è diventata cosa a portata di tutti, allora chi ha potere, politico, economico, burocratico, giudiziario, ha pensato bene di recuperare quello che stava perdendo inventando il "diritto alla privacy" con una legge che, per esempio, come minimo fa diventare a pagamento l'informazione che altrimenti potrebbe essere acquisita gratis. Io sono arrivato a ricevere fino a tre telefonate nello stesso giorno dallo stesso gestore di telecomunicazioni per farmi delle offerte, nonostante abbia richiesto diverse volte di essere cancellato dai loro elenchi e aver scritto senza aver risposta all'Autority sulla privacy. Intanto io i soldi per pagare un avvocato per una questione del genere non li ho e i miei dati possono essere venduti ad altri call center dato che forse ho firmato anche una piccola clausola accessoria confusa tra quelle "per la privacy" necessarie per vedermi accettato il contratto. Ma se un bed and breakfast si conserva l'informazione sulla stanza in cui sono stati alloggiati i diversi clienti, magari per potergliela proporre la prossima volta che vengono ospitati, può trovarsi a dover pagare alcune migliaia di euro di multa.
Per di più questa legge è stata concepita per aiutare coloro che i loro segreti li sanno usare molto bene contro gli altri.
Tutela perfettamente chi ha intenzione di fare cose non lecite di nascosto (provate a capire quali sono i proprietari di certe società) ma allo stesso tempo lascia la possibilità a chi ha potere di avere tutti i vostri dati (provate a farvi mandare qualche migliaio di euro senza avere un conto corrente e ad aprire un conto corrente senza dare tutti i vostri dati oppure ditemi cosa provate quando vi viene contestato da agenti di polizia che avete partecipato alcuni anni prima ad una riunione politica a trecento chilometri da casa vostra, come è capitato a me).
Per non parlare delle persone che, per esempio, sono morte non avendo ricevuto soccorso in tempo perché chi avrebbe potuto fornire informazioni a chi voleva aiutarli si bloccava di fronte alla privacy (provate a telefonare ad un ospedale per sapere se c'è ricoverato un vostro amico che non è tornato a casa da una gita e che invece è in fondo a un canalone, l'unica cosa è chiamare in ogni caso il 118 o il 113, anche se il vostro amico fosse al bar sotto casa, e sperare nella solerzia dei soccorsi).
Adesso che, anche tramite Internet, sarebbe molto più facile recuperare e diffondere informazioni sulle persone e sui fatti, ci si trincera dietro la privacy per rifiutarle a chi, in fondo, ne avrebbe diritto anche per tutelare i propri diritti (provate a scoprire che ISEE ha presentato il notaio il cui figlio è prima del vostro nella graduatoria dell'asilo). Allo stesso tempo si è messa una normativa che sta come una spada di Damocle sulla testa di chi vorrebbe diffondere il più possibile l'informazione per rendere partecipe le persone della loro vita (provate a vedere cosa rischia chi spedisce un volantino a coloro che hanno firmato con indirizzo una petizione contro una ingiustizia).
La legge sulla privacy penso che sia la formalizzazione del nuovo credo imperante nella nostra società: il "fatti i fatti tuoi" che è l'esatto opposto dell'"I Care" di don Milani. E' il primo dei comandamenti della nuova religione i cui templi sono gli ipermercati e i sacerdoti i broker borsistici e le litanie i listini delle borse.
Nessuno deve sapere cosa fanno gli altri, tutto il potere dell'informazione deve rimanere in mano di pochi che lo controllano a loro piacimento, usando dell'informazione legalmente detenuta (spesso semplicemente comprata a suon di euro). Tutti gli altri non possono procurarsela liberamente, a prescindere dallo scopo per cui ciò viene fatto.
Ho sempre pensato che chi ha dei segreti ha qualcosa di cui si vergognerebbe o si dovrebbe vergognare.
Nel primo caso, se non ce n'è motivo è meglio che si sappia pubblicamente in modo da liberarlo dalla sua oppressione, ma se c'è motivo di vergognarsi e giusto che si sappia perché ognuno possa decidere come affrontarlo, pur nel pieno rispetto dei suoi diritti.
Se i segreti servono per difendere i propri diritti, allora è meglio pretendere che i diritti vengano rispettati e non accontentarsi di poterne godere solo perché si sfugge a chi li nega. Se ho la coscienza a posto non ho bisogno di segreti, se non faccio niente di male perché non posso fare tutto alla luce del sole? Non si sta parlando di sentimenti, per quanto anche quelli sarebbe bello se tutti sapessero esprimerli senza paura, ma di dati di fatto.
Perché non far sapere quanto si guadagna, se si prende uno stipendio che non è un furto e non si ha intenzione di evadere il fisco? Perché nascondere una malattia, visto che non è una colpa ammalarsi, ma la legge deve punire chi nega dei diritti a chi è malato? Perché nascondere i propri dati personali, se non si è fatto nulla di male agli altri? Perché nascondere le proprie relazioni con altre persone, se si ritengono lecite? Può succedere che un pentito debba tenere nascosta la sua residenza per le minaccie della malavita ma qui non si tratta di privacy ma di incolumità personale, può succedere che un malato di AIDS venga discriminato ma anche in questo caso non è questione di privacy ma di diritti violati che vanno fatti rispettare da chi li nega. Rispetto a casi come questi la società, invece di proteggere la vita in segreto dovrebbe proteggere la vita in pubblico facendo in modo che ognuno abbia diritto a vivere la propria vita non perché è nascosta a tutti ma perché tutti la rispettano.
Ma questa, purtroppo, è tutta un'altra storia.

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Rutelli e le armi

Ci sono persone che cambiano nel tempo e persone che rimangono fedeli a se stessi.
Qui è Francesco Rutelli durante le manifestazioni contro la Mostra Navale Bellica negli anni 80 a Genova. Di quale tipo è secondo voi?

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15/03/08

Il mio G8 e la gestione del potere nel movimento

Ho iniziato nel Gennaio del 2000, quindi un anno e mezzo prima, a fare le prime riunioni per organizzare l'opposizione al G8. Fin dall'inizio invece di porre l'attenzione sulle possibilità di collaborazione, si sono create dei gruppi contrapposti che volevano, prima ancora che imporre le loro idee, arrivare ad imporre il loro predominio. Per questo motivo, per dissociarmi da questa suddivisione in bande, mi sono rifiutato di legarmi a qualcuno dei gruppi attivi e mi sono limitato a lavorare individualmente a due progetti, essendo uno dei cinque componenti del gruppo-stampa del Genoa Social Forum e organizzando i Gruppi d’Affinità per l'Azione Diretta Nonviolenta. Tirando le somme della mia esperienza penso di poter essere soddisfatto. Infatti, per quanto riguarda il lavoro con la stampa, nonostante l'ostilità di molti giornalisti nei confronti di altri componenti del gruppo, sicuramente l’esperienza del G8 è stata l'occasione in cui la stampa e i media in generale hanno avuto più attenzione rispetto ai temi del movimento, riconoscendogli un rispetto tale da indurre il coraggio di superare l'usuale autocensura sulle violenze che ha subito ad opera delle forze di polizia, e mantenendo tale attenzione anche in seguito. Riguardo ai Gruppi d’Affinità, per quanto la loro azione fosse abbastanza limitata da un punto di vista dell'efficacia, sono stati gli unici manifestanti che hanno raggiungo lo scopo che si erano prefissi cioè bloccare completamente un varco della zona rossa, quello di Portello, per tutta la giornata senza che vi fossero violenze di alcun genere, riuscendo anche a tenere lontani i black block dalle zone dove loro erano presenti. In altre parole, se tutti i manifestanti avessero fatto lo stesso, il G8 sarebbe stato realmente bloccato e probabilmente nessuno sarebbe morto o si sarebbe anche solo ferito.
Quindi, personalmente, potrei ritenermi soddisfatto. Ma l’esperienza nel Genoa Social Forum ha avuto anche degli aspetti negativi che purtroppo si continua a nascondere o a trascurare e che invece sarebbe opportuno prendere in considerazione per far crescere la capacità critica e assertiva che ormai sono molto assopite anche all’interno del movimento. In primo luogo la visione verticistica e gerarchica delle strutture politiche. In secondo luogo i personalismi e gli arrivismi di alcuni. In terzo luogo la divisione per bande per la quale il gruppo viene prima dello scopo comune. Sono tre aspetti che sono ovviamente legati tra loro dall'unico tema della gestione del potere che dovrebbe essere affrontato e sperimentato all'interno del movimento per arrivare a fare anche su questo aspetto delle valide proposte alla società tutta.

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Nonviolenza e conflitto

La nonviolenza non ha paura del conflitto, anzi, in molte situazioni lo "crea", soprattutto in quelle situazioni in cui la tranquillità cerca di nasconderlo, perché spesso i conflitti ci sono ma sono nascosti. La nonviolenza "crea" conflitto nel senso che lo rende evidente, lo fa diventare una questione con cui tutti devono avere a che fare, sia quelli che preferiscono non vederlo, sia quelli che lo nascondono. Il nonviolento è necessariamente un rompiscatole, perché rompe le scatole non solo a chi fa direttamente la violenza, ma anche alla stragrande maggioranza che la accetta e fa finta di non vederla. Quindi scegliere di essere nonviolenti, e non limitarsi semplicemente a non essere violenti, significa andare ad impelagarsi in un bel po' di problemi, anche rischiando di perdere quella tranquillità che uno potrebbe avere rientrando tra quelli che la violenza altrui "non la vedono". Sicuramente la nonviolenza affronta il conflitto e in alcune situazioni lo evidenzia, lo fa esplodere con lo scopo di cercare una soluzione che può essere sia una ri/soluzione sia una dis/soluzione. Il conflitto ha varie possibilità di evolvere e purtroppo, molte volte, proprio per il fatto che viene nascosto, continua. Invece è proprio dall’affrontarlo, dal farlo maturare, che si può riuscire a farlo emergere e possibilmente farlo finire.
Il conflitto, quando viene affrontato, può essere risolto trovando una soluzione valida per tutti ma altre volte può semplicemente dissolversi perché il motivo del confitto non era sostanziale, spesso era solo motivato da una incomprensione o da un fraintendimento, e quindi, facendolo emergere, è possibile semplicemente superarlo riconoscendone l'infondatezza e trasformandolo in una occasione di dialogo.
In ogni caso la nonviolenza ha a che fare con il conflitto, anche se non per questo deve portare necessariamente ad un vita di conflitto. Spesso si pensa che non affrontando i conflitti si vive più tranquilli ignorando le tensioni che i conflitti generano anche a chi nel conflitto ha una posizione predominante. La nonviolenza permette anche una vita in cui dal conflitto si esce positivamente recuperando le situazioni di tensione e facendole diventare situazioni positiva. Affrontare il conflitto in maniera nonviolenta può migliorare anche la propria qualità di vita, assieme a quella altrui. Ma per fare emergere i conflitti spesso è necessario arrivare all’azione. Di nuovo arriviamo al dualismo tra pensiero ed azione, tra teoria e pratica. Non ci si può solamente limitare a discutere, diffondere informazione, diffondere conoscenza, è necessario in molte situazioni passare all’azione. È vero che la sensibilizzazione, la divulgazione e l’informazione fanno crescere la sensibilità e sono molto importanti, anche all’interno delle iniziative nonviolente, proprio per aumentare la capacità dell’ambiente di risolvere il conflitto, ma in molti casi non è sufficiente ciò che le singole persone che si sono sensibilizzate faranno di conseguenza. Il fatto che persone che hanno recepito la sensibilizzazione agiscano di conseguenza è positivo ed auspicabile ed utile ad evitare conflitti futuri, ma, soprattutto nelle situazioni di conflitto evidente, spesso non è sufficiente. È quindi necessario arrivare ad un azione che sia concreta, specifica e mirata al conflitto stesso. Questo è il punto più delicato perché la nostra educazione da centinaia di anni se non da millenni, prevede che l’ azione nel conflitto è necessariamente un'azione di tipo violento tanto che spesso il termine conflitto viene equiparato a quello di violenza.

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Nonviolenza e legalità

L'azione diretta nonviolenta, di per sé, non rispetta necessariamente la legalità. È un' azione rigorosamente obbediente, nel senso che obbedisce, per esempio, al principio di giustizia, alla propria coscienza, ma le leggi umane, come troppe volte si può constatare, non sono intrinsecamente giuste. Per cui l’azione nonviolenta è obbediente rispetto alla base del nostro credere, ma può essere disobbediente alle leggi umane. Tra chi contesta i "disobbedienti" affermando che disobbedire alle leggi è inaccettabile ci sono molti che spesso in auto superano i limiti di velocità o evadono normalmente le tasse "perché se dovessimo dar retta a tutte le leggi non si potrebbe campare". Se uno è così rigorosamente fautore della legalità lo dovrebbe essere sempre, altrimenti è pura ipocrisia. L’illegalità è una cosa che può rientrare benissimo nell’azione nonviolenta e soprattutto quanto più la legge è ingiusta quanto più disobbediente dovrebbe essere la nonviolenza.D'altra parte, l’essere per forza disobbedienti è un aspetto infantile legato al pensare di affermare la propria esistenza solo disobbedendo al potere che si ha davanti, ma questo significa che ci si sta relazionando al potere in una situazione di sudditanza, far dipendere la propria esistenza da una negazione invece che da una affermazione, come il bambino che deve affermare la propria identità dissociandola da quella dei genitori. Se questo è un meccanismo naturale nel bambino che sta cominciando un proprio cammino di identità, a livello adulto diventa patologico. Una persona matura è perché è, non perché riesce a dimostrare ad un potere più forte di lui che non lo sta soggiogando.Per cui, la nonviolenza può anche essere disobbediente, illegale ma non lo deve essere per forza.

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Formazione alla nonviolenza

Un aspetto importante è che l’azione nonviolenta deve essere preparata: ci vuole un'educazione che permetta di saper agire anche in situazioni di tensione, di paura, in situazioni difficili anche di tipo relazionale e deve essere un' azione efficace, deve far progredire la situazione verso la soluzione del conflitto, altrimenti è meglio evitare di agire del tutto.
Purtroppo raramente si fa una verifica delle azioni fatte, su quello che hanno ottenuto positivamente e negativamente. Si dà per scontato che le azioni fatte sono le migliori che potevano essere fatte e quindi non si va a verificare se l'azione è stata almeno parzialmente positiva o se invece non è stata perfino negativa, creando, ad esempio, situazioni di incomprensione che prima non c’erano. Molte volte vengono definite nonviolente delle azioni che sono prettamente delle azioni personali, che non sono fatte per agire nel conflitto, ma servono fondamentalmente per placare l'ansia e la paura di qualcuno. Per cui sono delle azioni che sono autoreferenziali, non influiscono sul conflitto se non marginalmente e da un punto di vista inibiscono la nostra giusta aggressività, ci autogiustificano. Un azione nonviolenta dovrebbe invece agire realmente nel conflitto, essere efficace rispetto al conflitto.

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I vantaggi dell'azione nonviolenta

La nonviolenza richiede la capacità d’agire direttamente all’interno del conflitto. Fin da piccoli noi veniamo educati, dai nostri genitori, dalla società, dalle relazioni che abbiamo, ad affrontare il conflitto in una maniera violenta acquisendo a poco a poco un addestramento sopraffino. Ma veramente pochi ricevono un addestramento all'azione che non sia violenta per agire nel conflitto. È un tipo di azione che, probabilmente, se la imparassimo fin da piccoli, sarebbe ancora più facile da imparare che l’azione violenta perché non è poi così facile agire nel conflitto violentemente. Come la violenza si impara poco a poco (e la nostra società è bravissima ad insegnarcelo), anche la nonviolenza richiede del tempo per essere imparata, e come la violenza si impara praticandola, anche la nonviolenza si impara dall'esperienza. Ma come molte volte non si riescono a risolvere i conflitti con la violenza, anche la nonviolenza può non riuscire nella soluzione del conflitto. D’altra parte, se si è addestrati, con la nonviolenza si può pensare di risolvere il conflitto non sconfiggendo l’altro ma dando una soluzione valida per tutti, e si riesce ad eliminare il problema perché si leva la motivazione all’altro di cercare di riaccendere il conflitto. Al contrario, dato che la modalità violenta considera il conflitto "risolto" quando uno schiaccia l’altro, ci sarà qualcuno che cercherà, proprio per gli aspetti di aggressività naturale, di recuperare e ribaltare la propria posizione di inferiorità e quindi il conflitto non sarà risolto ma resterà solo latente fino a che, prima o poi, riesploderà. L'unica maniera per "risolvere" violentemente il conflitto è eliminare fisicamente l'altro, il diretto interessato e tutti coloro che sono in relazione con lui. Come può succedere che con la nonviolenza non si riesce a risolvere il conflitto, altrettanto facilmente, se non più facilmente, con la violenza non si riesce a risolvere i conflitti. Se, con la nonviolenza, si riesce a risolvere dei conflitti è di solito in una maniera stabile, mentre invece il conflitto "risolto" in maniera violenta è apparentemente risolto solo in modo instabile.
D'altra parte nella gestione nonviolenta dei conflitti il livello di sofferenza per tutte le parti in causa è decisamente minore rispetto ad una gestione violenta. E se poi non si riesce a trovare una soluzione definitiva e completa almeno si sono ridotte le sofferenze. Al contrario con un approccio violento al conflitto in molti casi perfino chi vince subisce tali sofferenze da far preferire di non aver mai affrontato lo scontro. All'invasione da parte delle truppe sovietiche in Ungheria si rispose con la violenza e in Cecoslovacchia con la nonviolenza. In entrambe i casi l'occupazione rimase ma in Cecoslovacchia morirono poche decine di persone contro le 56000 morte in Ungheria. In Palestina la prima Intifada, in cui il massimo della violenza della resistenza erano pietre lanciate da ragazzini, era quasi riuscita ad ottenere una buona parte delle richieste palestinesi ma la provocazione di Sharon che attraversò la Spianata delle Moschee riuscì a far scatenare una reazione violenta che ha dato modo agli israeliani di schiacciare negli anni successivi le rivendicazioni palestinesi.
Si può quindi capire che la nonviolenza conviene anche solo da un punto di vista pragmatico, non necessariamente per una scelta etica o morale, nel senso che è una modalità di gestione del conflitto che risolve più problemi a un costo inferiore per cui non sembra ragionevole continuare ad usare la modalità violenta; il problema è che quella violenta è una modalità che ormai noi abbiamo acquisito e che fa parte di noi, mentre invece quella nonviolenta normalmente non la acquisiamo durante la nostra vita, soprattutto nelle società del nord del mondo, visto che in altre società un approccio nonviolento è più connaturato alla cultura locale. A questo punto per trovare dei percorsi nonviolenti per risolvere i conflitti bisogna lavorare su di noi, come singoli e come collettività, recuperando quello che non abbiamo imparato e tralasciando, disimparando, quello che abbiamo imparato nel campo della violenza. Questo comporta del tempo, del lavoro su noi stessi e sugli altri, proprio perché non basta affrontare la nonviolenza da un punto di vista puramente personale. Per arrivare a compiere delle azioni nonviolente bisogna riuscire ad avere una capacità di autocontrollo che non è semplicemente reprimersi, ma sapersi controllare, saper limitare la propria risposta aggressiva in alcune situazioni, ma in altre situazioni invece stimolarla, per esempio per superare situazioni di depressione, di paura o di pigrizia anche indotte dal contesto, proprio per arrivare ad agire ed affrontare realmente il conflitto.

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Violento o nonviolento?

Il mio modo di vedere la nonviolenza non è un qualcosa di ideologico, parte da dei valori ma è qualcosa che matura di giorno in giorno, è qualcosa con cui ti confronti, con cui hai a che fare per riuscire a capire ogni volta qual’è il percorso migliore. È una direzione da seguire con alcuni paletti più precisi a cui fare riferimento ma che mi richiede ad ogni passo di scegliere dove mettere il piede. Le cose non sono necessariamente violente o nonviolente: posso spaccare la testa di qualcuno con un utilissimo martello o salvargli la vita con un coltello affilatissimo. Neanche le azioni sono di per sé violente o nonviolente. In un quartiere di Genova, ad esempio, hanno organizzato azioni ritenute prettamente nonviolente come la raccolta di firme, i cortei, i digiuni, per impedire con motivazioni razziste l’installazione di un campo nomadi. Quindi azioni "nonviolente" per scopi decisamente "violenti". Ma, come dicevo prima, anche uno sculaccione ha valore diverso in contesti diversi. Penso sia necessario stare attenti a non dare dei timbri, ma bisogna cercare di affrontare le cose ognuna per quel che è, cercando di capire ogni volta; questo richiede fatica, anche del tempo, perché bisogna farsi un'idea, informarsi, e questo può anche significare che a cinquanta anni o anche a cento non si sa dire alla prima battuta cosa è giusto e cosa è sbagliato. Però è l’unica maniera per evitare poi di fare realmente delle violenze magari soltanto perché ad un certo punto si è arrivati a concludere che una cosa è così "e basta" e tutto ciò che avviene dopo lo ignoriamo perché pretendiamo di "aver capito tutto". La nonviolenza è fatta di persone che non hanno "capito tutto" o meglio che sono sicure di non avere già capito tutto.

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Violenza

A questo punto bisognerebbe addentrarsi nella definizione del termine violenza: provo sommariamente a darne una, tra le tante, che penso sia come molte altre discutibile, ma che mi sembra tenga correttamente conto di aspetti etici, fisiologici, psicologici e sociali. Fare violenza è creare deliberatamente sofferenza fisica e morale in altri al fine di imporre ad altri il proprio vantaggio o di raggiungere la propria gratificazione.
Per questo la nonviolenza non esclude di usare strumenti che, ad esempio, costringono l'avversario. Magari non lo costringono con la forza fisica ma, ad esempio, con la forza psicologica: ai tempi in cui a Genova c’era la campagna contro la Mostra Navale Bellica, che era una mostra-mercato di sistemi d'arma, i manfestanti impedirono l’accesso alla mostra ai visitatori costringendoli, nel caso avessero voluto entrare, a scavalcare i loro corpi. Tutto è iniziato nell'82: in dodici persone volantinarono davanti all'accesso della mostra. Di anno in anno si è creata una campagna vera e propria che, partendo da una notevole attività di sensibilizzazione e quindi una crescita della città e arrivando all'azione diretta nonviolenta durante i giorni della mostra, ha portato nel 89 all’ultima edizione della mostra. Durante le azioni di blocco ci eravamo dati l'obiettivo di impedire l’accesso alla mostra ma alcuni ci obiettavano che impedire a qualcuno di entrare era fargli una violenza, se non fisica, perché nessuno veniva toccato, almeno psicologica, perché li intimorivamo con la nostra presenza. Chi entrava era libero di passare ma per far quello doveva fare del male ai manifestanti camminando loro addosso e questa era vista da alcuni come una violenza psicologica nei suoi confronti, una violenza che poteva shockarlo, creargli disagio, poteva in qualche modo turbarlo. La considerazione era che quel disagio, quella sofferenza servivano a farlo riflettere sulla sofferenza incommensurabilmente maggiore creata dalle armi che andava a trattare nella mostra, l'azione non era fatta per evitare la sofferenza dei manifestanti (che per altro, se decideva di passare, aumentava), né per sconfiggerlo e danneggiarlo a vantaggio di chi gli impediva il passaggio, ma per far riemergere la sua umanità e per questo non era da considerare una violenza.
Molte volte si abusa del termine violenza: come dicevo prima, per superare un conflitto a volte è necessario lo scontro e questo vuol dire avere a che fare con una realtà sgradevole. Molte volte si accusa di essere violento un atteggiamento sanamente aggressivo e molte altre invece si giustificano e si assecondano comportamenti molto violenti magari solo perché non lo sono in maniera evidente. Bisogna riflettere ogni volta sulle singole situazioni. Per esempio alcuni ritengono che dare una patta sul sedere ad un bambino sia una violenza inaudita, ma penso che dipenda molto dalla situazione. Se lo sculaccione gli arriva per il fastidio dato da un genitore stanco che non ha voglia di dare tante spiegazioni è un conto, mentre se lo sculaccione arriva, magari sul pannolino, da un genitore serio e concentrato dopo che il bambino è scappato attraversando la strada senza guardare può essere invece un’ottima occasione per farlo riflettere senza conseguenze negative, per esempio, sul pericolo che lui ha corso. In quel caso la patta non è una vendetta, non è data per dare dolore, ma crea un canale di comunicazione che altrimenti difficilmente potrebbe essere altrettanto forte.

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Nonviolenza

Quello che posso dire qui sulla nonviolenza è solo il mio punto di vista, quello che io penso, perché sul tema della nonviolenza ci sono molti punti di vista che possono anche risultare molto diversi tra loro su alcuni argomenti.
L’unica cosa che forse viene condivisa da coloro che parlano di nonviolenza è che nessuno può pensare di avere la verità in tasca. Questo significa che all’interno degli ambienti che si rifanno al concetto di nonviolenza ci sono le posizioni più diversificate, quello che si intende per nonviolenza è estremamente variegato, oggi ancora più che nel passato. Rispetto ad alcuni anni fa, c'è stato un cambiamento che da un lato è positivo e dall’altra è negativo: il termine nonviolenza è entrato nel linguaggio quotidiano, in politica è perfino diventato un termine rivendicato da più parti mentre soltanto dieci anni fa c’era un solo partito che timidamente utilizzava questo termine nei propri programmi. Ora come ora tutti quanti "sono" nonviolenti e questo implica che il termine si è esteso, ha aumentato i suoi significati, ma ha anche diminuito la sua definizione: come una coperta che viene tirata da tutte le parti il termine "nonviolenza", a seconda di chi lo tira, copre cose diverse e in maniere diverse.
Per questo motivo quello che scriverò sarà in quest’ottica: anche quando sembrerà che parli in termini assoluti starò solo scrivendo del mio modo di vedere la nonviolenza, che deriva dalle mie esperienze e dalle mie riflessioni.
La prima cosa che penso sia importante dire è che la nonviolenza non è soltanto pratica e non è soltanto teoria. Nella nonviolenza si cerca di superare le contrapposizioni, che spesso banalizzano la realtà. Per esempio, anche se sembra normale che in un conflitto si cerchi di vincere, se non si ha paura a uscire dagli schemi ci si rende conto che vincere implica la sconfitta dell'altro e la sconfitta dell'altro implica la continuazione del conflitto.
La teoria non è indipendente dalla pratica, perché la teoria e la pratica spesso si rincorrono. Questo, per esempio, implica una cosa ben precisa: mentre per molti che si limitano ad una visione teorica la nonviolenza dovrebbe essere ciò che rifugge lo scontro perché è violento, se si cerca di mettere in pratica la teoria ci si rende conto che in molte situazioni si deve arrivare a scatenare lo scontro. Purtroppo anche in Italia ci sono molti che si definiscono nonviolenti solo perché non sono in grado di essere violenti e quindi giustificano la loro incapacità a reagire alla violenza definendola nonviolenza. Io non penso che la nonviolenza sia ciò che fanno quelli che non riescono ad essere violenti. In effetti la nonviolenza è di chi violento saprebbe e potrebbe esserlo benissimo ma sceglie di non esserlo. Se io so essere violento e scelgo di non esserlo è perché veramente so cosa sto scegliendo; se io non so essere violento non so neanche cosa sto scegliendo e spesso neppure capisco realmente la differenza tra violenza e nonviolenza.
Con una visione più disincantate della nonviolenza, con un approccio meno ideologico ma più scientifico, si può riconoscere nell’aggressività un qualcosa di estremamente positivo. Di solito quando una persona mostra un atteggiamento aggressivo, reattivo, lo si considera subito come violento e quindi il suo comportamento viene squalificato.
Ma questo è un equivoco.
Essere aggressivi (dal latino "ad gredior": vado verso) significa affrontare il problema, significa, per esempio, reagire ad una sofferenza non solo individuale ma anche sociale, reagire all’ingiustizia. Quindi da questo punto di vista la nonviolenza è aggressione, o meglio, è una forma di aggressività che riesce ad utilizzare strumenti che cercano di evitare la sofferenza evitando per quanto possibile di far soffrire l’altro, in altre parole che non gli fanno violenza. L'aggressività è quella sana energia che permette alla specie umana di progredire reagendo alle difficoltà senza sprofondare nella depressione. Perfino il guizzo dell'antilope è una risposta aggressiva all'attacco della leonessa.

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14/03/08

Bandiera della pace all'Eredità su RAI 1



Il 17/1/2003, pochi giorni prima della grande manifestazione contro la guerra in Iraq a cui il governo italiano partecipò contro il volere della stragrande maggioranza degli italiani, seguendo le pressioni dei miei figli sono andato al quiz "L'eredità" su RAI 1 e al momento della eliminazione ho invitato gli spettatori a mettere alle finestre la bandiera della pace. Una azione che videro più di 5 milioni di persone e dopo la quale il numero di bandiere della pace esposte in Italia divenne enorme. Purtroppo neppure l'evidenza fermò il governo Berlusconi dallo scendere in campo ignorando la volontà degli italiani.
E' stata una azione diretta nonviolenta che ha permesso anche agli operatori della televisione di esprimere la loro contrarietà alla guerra. Nel montaggio della trasmissione, infatti, la mia presenza è stata valorizzata, levando tutte le incertezze nelle risposte, prendendo le inquadrature e le battute migliori. E nel momento più importante, quando propongo di esporre le bandiere, hanno aggiunto una musica di fondo che ha reso il mio intervento estremamente toccante.
Quando si ha a che fare con i mass media non bisogna dare per scontato di avere a che fare con persone senza etica disposti a fare tutto per un po' di soldi. Bisogna fare attenzione ma è possibile dare delle occasioni a persone che magari vivono male il loro essere in strutture annientanti di dare forza al proprio pensiero.

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Pensiero circolare

Un pensiero circolare è un pensiero che non ha né capo né coda, che non va dritto alle conclusioni, che torna su se stesso. Segue una sua direzione senza paura di tornare sui suoi passi.

Non per questo è un pensiero senza nesso, di quelli che non hanno una continuità, sconnessi e contraddittori.

Se poi lo si guarda in tre dimensioni è un pensiero che non torna necessariamente allo stesso punto ma che può anche elevarsi o approfondirsi pur conservando il suo movimento circolare.

Se poi si interseca con altri pensieri può creare anche trame molto complesse.

Spero che abbiate voglia di seguire questi pensieri nel loro circolare liberi.
Alcuni dei pensieri mi sono frullati in testa un po' di tempo fa, altri in questi giorni, altri sul momento.

Spero di vedere i vostri pensieri intrecciarsi con i miei.

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